In riferimento all’atteggiamento del suo governo nei confronti dell’attuazione del protocollo di Kyoto, come Associazione Medici per l’Ambiente, unica associazione internazionale di medici riconosciuta dall’OMS le inviamo le seguenti considerazioni.
Negli ultimi tre anni sono stati pubblicati alcuni rapporti di estremo interesse sullo stato del Pianeta, i più significativi dei quali sono rappresentati dal Millennium ecosystem assessment del 2005 e dai più recenti rapporto Stern del 2006 e rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (The IPCC 4th Assessment Report on Climate Change) del 2007. Dalla lettura di tali rapporti emergono alcuni elementi di grande rilevanza che ormai paiono superare le discussioni che si sono accese nell’ultimo quindicennio sulla sostenibilità dello sviluppo, spesso senza portare a risultati condivisi, soprattutto a partire dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992. Tali evidenze possono essere riassunte nei seguenti punti principali:
- Il degrado del Pianeta sta subendo una forte ed imprevista accelerazione che costringe a prevedere conseguenze gravi per tutta la vita sulla terra ma in particolare per la nostra specie in termini ambientali, sociali ed economici su una scala di decenni.
- Per la prima volta risulta chiaro da tutti i rapporti che i cambiamenti globali influiranno a brevissimo termine sulle economie e sulle condizioni sociali sia per la riduzione delle risorse non rinnovabili, che per le conseguenze del cambiamento climatico e in genere per la drastica perdita in termini di servizi resi alla economia umana dagli ecosistemi (ecosystem services).
- E’ ormai chiarissimo che la nostra specie incide in modo determinante sul degrado del pianeta e che il suo rallentamento non può che passare da una svolta radicale nei modelli economici fin qui vincenti.
L’OMS ha coordinato in particolare la redazione del capitolo sulla salute del rapporto IPCC e, a sei anni, dall’ultima relazione sull’argomento (2001), ha reso noto che la preoccupazione non riguarda solo la previsione di eccessi di mortalità e morbosità legati al cambiamento climatico in futuro ma anche gli effetti già tangibili. Per ogni grado di aumento della temperatura si calcola una media del 3% di aumento della mortalità.
Dai suddetti rapporti emerge che nel 2010 le temperature tenderanno ad aumentare tra i 2° ed i 6°C, rispetto al 1990. Nell’ultimo secolo la temperatura media mondiale è salita di 0,6° e l’aumento previsto entro la fine di questo secolo potrebbe essere fra 1,4° e 5,8°. In Italia l’aumento di temperatura negli ultimi decenni è stato leggermente superiore alla media mondiale. Nell’estate 2003, caratterizzata da una forte afa, nel nostro Paese si è osservato rispetto al 2002 un aumento di 2.222 decessi (da 17.493 a 19.715) e nel periodo compreso tra il 16 luglio e il 15 agosto l’incremento è stato del 36% nella popolazione in generale e del 40% tra le persone di 65 anni e oltre (ISS, 2005).
Per non parlare poi dell’innalzamento del mare e dell’intensificarsi di eventi estremi legati a tempeste, inondazioni, frane e smottamenti. Gli eventi estremi sono già una realtà. In alcune aree del pianeta si intensificano gli eventi di precipitazioni intense e in altre gli episodi di siccità. Anche in Europa si assiste ad inverni più aridi nella parte meridionale e orientale e più umidi a Nord e a Ovest. Questo comporta un aumento di frequenza di precipitazioni intense con rischio di inondazioni dei bacini fluviali.
La colpa è di un circolo vizioso già innescato e difficile da fermare. L’aumento della temperatura fa aumentare l’evaporazione di oceani e mari. Di conseguenza si infittisce la coltre di vapore acqueo, che è un potente agente responsabile dell’effetto serra. Dal 1970 ad oggi la concentrazione di vapore acqueo è aumentata del 4%.
Nei pronostici per gli impatti futuri compaiono l’aumento della malnutrizione, del rischio di contrarre malattie infettive e respiratorie, con implicazioni per la crescita e lo sviluppo dei bambini; l’aumento delle morti e degli incidenti causati da eventi estremi più intensi e più frequenti; l’aumento della frequenza delle malattie cardio-respiratorie causate dall’alta concentrazione di ozono sulla superficie terrestre; il cambiamento della distribuzione geografica di alcune piante, dei vettori e dei parassiti e delle relative malattie; alterazione dell’ecologia degli agenti infettivi diffusi dalle acque e dagli alimenti con aumento delle malattie diarroiche e di altre malattie legate al cibo e all’acqua; aumento dello strato di ozono stratosferico con aumento dei tumori delle pelle e delle cateratte; con la diminuzione della mortalità in alcune aree dovuta alla minore esposizione al freddo. Le diverse zone del mondo, includa l’Europa verranno colpite in maniera diversa e anche la distribuzione degli effetti sulla salute è destinata a cambiare nel tempo con il continuo aumento delle temperature. A lungo termine tutto questo graverà soprattutto sui bambini e sulle future generazioni.
Anche la recente presentazione del Rapporto APAT-OMS “Cambiamenti climatici ed eventi estremi: rischi per la salute in Italia” (giugno 2007), rivolto alla comprensione dei rischi potenziali ed osservati per la salute umana negli scenari di esposizione conseguenti ai cambiamenti climatici ed agli eventi meteorologici estremi in Italia sulla base di una valutazione esperta dei dati ambientali e meteoclimatici disponibili nonché dei risultati più accreditati della ricerca sanitaria afferente alla materia clima e salute, ribadisce ulteriormente queste evidenze sottolineando la necessità di adottare a tutti i livelli istituzionali strategie strutturali di adattamento a tali cambiamenti.
Le scelte fin qui adottate sono però andate in tutt’altra direzione: per la riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera – responsabili dei cambiamenti climatici – l’Italia si è impegnata (insieme ad altri 158 paesi nel mondo) a ridurre entro il 2010 l’anidride carbonica in atmosfera del 6,5% mentre in realtà dal 1990 al 2004 si è registrato un aumento dell’11,6% di tali emissioni.
Se non si interviene subito con provvedimenti decisi i costi sanitari ed economici in generale in futuro tutti questi danni saranno insopportabili per la comunità.
Già oggi
In Italia la probabilità di sviluppare un tumore fra 0 e 74 anni è di 1 caso ogni 3 nei maschi e di 1 caso ogni 4 nelle donne ed è in aumento l’incidenza di diverse forme tumorali correlate all’ambiente come i mesoteliomi, il linfoma non Hodgkin, il cancro alla tiroide, ai testicoli, al cervello.
In generale in Italia cresce la percentuale di pazienti cronici che rappresentano il 36,6% con punte del 40,1% nel centro Italia, tant’è che l’OMS parla di “Emergenza cronicità”, riferendosi a malattie che spesso originano in età giovanile e richiedono poi anche decenni per manifestarsi clinicamente.
Sono malati cronici l’80,7% degli anziani ma non sono immuni neanche i giovani sotto i 24 anni: il 9,9% (9,7% nel 2001).
Nell’ambito delle malattie cardiovascolari ad es. a fronte di una riduzione costante della mortalità (pur con sostanziali differenze tra Paese e Paese) l’incidenza dell’infarto non è diminuita e patologie come l’aterosclerosi e l’ictus si diagnosticano sempre più spesso in persone giovani.
Secondo l’OMS l’86% dei decessi, il 77% della perdita degli anni di vita in buona salute e il 75% delle spese sanitarie in Italia e in Europea sono da attribuirsi alle seguenti patologie: malattie cardiovascolari, i tumori, il diabete mellito, le malattie respiratorie, i disturbi muscoloscheletrici.
I fattori di rischio per queste malattie sono in gran parte correlabili all’ambiente in maniera diretta (inquinanti presenti in tutte le matrici ambientali come gli interferenti endocrini, le polveri sottili, gli Nox, ect.) o indiretta (sedentarietà, fumo, abuso di alcool alimentazione scorretta, ect.).
E sempre maggiori sono le evidenze di associazioni tra esposizioni ambientali alla nascita (o prima) e l’insorgenza di malattie neurologiche, respiratorie e di cancro.
Alla luce del contesto appena delineato, dal quale emerge in modo evidente la complessità delle relazioni tra ambiente e salute, sembra comunque chiaro come il diritto ad un ambiente salubre debba essere assunto tra le priorità delle scelte politiche.
Non c’è dubbio che oggi sia necessario concentrare l’attenzione sui danni agli eco-sistemi e sugli effetti che da questi derivano per la salute della popolazione e per la stessa sopravvivenza delle future generazioni anche perché siamo già in ritardo ed alcuni processi negativi in termini di inquinamento ambientale rischiano di arrivare al limite dell’irreversibilità, su questo concorda ormai la gran parte degli scienziati a livello mondiale.
I costi
Anche da un punto di vista economico appare ormai chiaro come la difesa dell’ambiente e delle risorse naturali sia l’unica “risorsa reale” su cui puntare per costruire un’economia solida basata sulla produzione dei beni di prima necessità e sul miglioramento della qualità della vita.
Come si sta evidenziando proprio in questi giorni questo modello di sviluppo, basato sul consumo delle risorse, sulla produzione di beni inutili, sullo spostamento continuo delle merci da un paese all’altro, sulla finanza, rischia di far precipitare il pianeta in un disastro economico.
Il dato che per ogni euro investito nella lotta all’inquinamento ambientale si potrebbero risparmiare in Italia sei euro di spesa sanitaria e quattro euro di spese previdenziali merita una seria riflessione.
Oggi più che mai siamo convinti che sia l’”insieme ecologico” a dover indirizzare le scelte future in campo soprattutto economico-industriale. Considerare l’economia come un “sotto-insieme” dell’ecologia è il primo passo da compiere per avviarsi verso un percorso virtuoso che ci potrà portare fuori dalla situazione in cui siamo precipitati per le scelte sbagliate del passato.
Su questo concordano ormai anche gli economisti.
La ricerca di un nuovo modello di sviluppo dovrebbe essere il compito, oggi, della scienza economica: un modello che non sia rigidamente ancorato alla misurazione di indici quantitativi spesso inesatti (forse perché sono inadeguate le procedure di rilevazione di fenomeni come l’inflazione, il sommerso e così via) o a indicatori esclusivamente quantitativi come il Prodotto interno lordo, la produttività pro capite, il numero di ore lavorate e così via.
Essi devono essere affiancati da altri indicatori ai quali conferire centralità e rilevanza, come la qualità degli spostamenti nelle città, il degrado urbano e ambientale, il livello di soddisfazione rispetto al proprio lavoro e alle proprie competenze e ruoli professionali, la consistenza e la conservazione del patrimonio artistico e culturale, il grado di ospitalità delle strutture turistiche, la qualità dell’istruzione, gli indicatori relativi alla sicurezza, la qualità delle prestazioni di welfare e dei servizi pubblici, le disuguaglianze del reddito, la crescente incidenza delle vecchie e nuove povertà, il grado di solidarietà e di integrazione sociale.
In diversi settori (dal turismo all’arte, dalla qualità dell’accoglienza alla tradizione eno-gastronomica, dalla bellezza del paesaggio al piacere del vivere in Italia) i nuovi indicatori spingerebbero il nostro Paese verso importanti primati rispetto ad altri paesi europei ed extra-europei e potrebbero fungere da guida per le future scelte strategiche del sistema economico nazionale.
…e tuttavia, a ben guardare, proprio queste problematiche, con la richiesta drammatica e urgente di cambiamento che le caratterizza, aprono una prospettiva che ha in se una straordinaria concretezza solo che si consideri il passaggio da un sistema produttivo orientato alla produzione di beni di consumo individuali, materiali o immateriali, verso la produzione di “ben vivere collettivo” in termini di riqualificazione del territorio, dell’acqua e dell’aria; salute e prevenzione sanitaria; agricoltura e sicurezza alimentare; ristrutturazione della mobilità dei passeggeri e delle merci; ristrutturazione disinquinante dei processi produttivi e uso più efficiente delle risorse. In questo caso il bene che viene offerto è ubicato localmente (…) (non può essere prodotto in Romania o in Cina); il mercato è lontano da segni di saturazione (…); la concorrenza internazionale non ha il carattere esasperato del mercato dei beni di consumo individuali (…). (G.M.Fara Introduzione al Rapporto EURUSPES 2006).
Per questo riteniamo che:
Sia un errore strategico non aderire alle proposte presenti nel documento fortemente voluto dalla commissione europea sull’abbattimento delle emissioni dei gas climalteranti proprio per i rischi che si correranno non solo in campo ambientale, ma anche economico. Riteniamo infatti che per quanto su esposto, per i prossimi anni si potrà fare impresa applicando le modifiche richieste dal documento europeo e cioè intraprendendo attività che portino ad un’economia di mercato sostenibile.
Pur essendo consci di quanto le economie mirate a produzioni del “ben vivere collettivo”, piuttosto che a soddisfare bisogni individuali, siano tutt’altro che neutrali e implichino diversi ruoli dell’iniziativa privata o delle regole di mercato, crediamo che questo problema dovrà pur essere affrontato, perché le emergenze citate richiedono un cambiamento urgente di impianto produttivo.
Chiediamo pertanto che anche l’Italia aderisca al programma di riduzione delle emissioni previsto per i prossimi anni, convinti che i benefici economici, oltre che sanitari e di conservazione della biodiversità, sapranno ripagare gli sforzi delle diverse realtà imprenditoriali. Riteniamo che non sia possibile continuare a far pagare in termini di riduzione dell’aspettativa di vita (quantificabile ad esempio in meno 30 mesi nel bacino Padano, il più inquinato d’Europa) e di qualità di vita soltanto ai semplici cittadini senza che ci sia un minimo impegno da parte delle realtà industriali per risolvere questo problema. Dichiarare l’impossibilità di adesione al progetto europeo con la motivazione di un impegno economico troppo gravoso per le industrie è a nostro giudizio una giustificazione prima di tutto antidemocratica oltre che, come abbiamo dimostrato, antieconomica e contro lo sviluppo di un diverso modo, più sostenibile, di pensare l’impresa.
Riteniamo anzi che la sfida per invertire la progressione del danno ambientale debba partire proprio dall’Italia perche in primis siamo noi, come evidenziato dal rapporto “Impacts of Europe’s changing climate” (http://reports.eea.europa.eu/eea_report_2008_4/en/ ) ad essere i più vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici.
A cura di MG Petronio e Manrico Guerra
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