VULCANI, CAMPI FLEGREI / Nel cuore di un vulcano con La Settimana del Pianeta Terra
Luongo: “Prodotti di caduta dei Campi Flegrei ritrovati nella Pianura Russa. A Napoli entreremo nel cuore di vulcani che non eruttano da 486 anni. Il vulcanismo attivo non è solo un elemento di rischio, ma anche una risorsa: paesaggistica, termale, geotermica, culturale”
Vulcani, Campi Flegrei, La Settimana del Pianeta Terra, ultime notizie scienza e ambiente - Nell’antichità con il termine Campi Flegrei si indicava tutta la fascia costiera campana in quanto terra che trae la sua origine dai fenomeni vulcanici. Oggi tale toponimo è comunemente assegnato all’area vulcanica che si estende ad occidente della città di Napoli, comprendendone una parte, fino a Cuma. Ma i vulcanologi considerano l’intera città di Napoli appartenente al campo vulcanico flegreo con il limite occidentale a Cuma, mentre quello orientale è segnato dalla depressione del Sebeto, l’antico corso fluviale che separava questo territorio dal sistema vulcanico del Vesuvio”. Lo ha affermato Giuseppe Luongo , vulcanologo di spessore internazionale, già direttore dell’Osservatorio Vesuviano e professore Emerito della Federico II . Durante La Settimana del Pianeta Terra, in programma solo in Italia , dal 12 al 19 Ottobre ed organizzata dalla Federazione Italiana dì Scienze della Terra con ben 152 eventi in contemporanea , a Napoli scenderemo nel cuore di un vulcano dalla storia affascinante: i Campi Felegrei (www.settimanaterra.org).
“Dunque oggi l’ intera città di Napoli è considerata appartenente al campo vulcanico flegreo – ha proseguito Luongo – e questo risultato è stato ottenuto dopo anni di intense ricerche avviate negli anni ’70 dopo la crisi bradisismica di quegli anni che determinò l’evacuazione del Rione Terra di Pozzuoli ed ancor più durante e dopo la crisi degli anni ’82-’84 che causò l’allontanamento degli abitanti dal centro storico di Pozzuoli. Al campo vulcanico flegreo si deve l’eruzione di maggiore energia registrata nell’area napoletana; si tratta dell’Eruzione dell’Ignimbrite Campana, accaduta circa 39000 anni fa, la quale ha prodotto un vasto collasso calderico i cui limiti sono rappresentati approssimativamente da un semicerchio, aperto verso mare, che unisce la parte orientale della città di Napoli a Cuma , attraverso Quarto. L’eruzione ignimbritica è stata caratterizzata da un elevato indice di esplosività, tra i più elevati nella classifica di tali tipologie eruttive, ed i prodotti depositati con meccanismi da flusso (nubi ardenti) hanno interessato non solo la Piana Campana, ma sono confluiti anche nelle valli e sui rilievi dell’Appennino. I modelli realizzati per lo studio della dinamica della colonna eruttiva mostrano che questa ha raggiunto una quota di circa 30 km portando i prodotti di caduta a migliaia di chilometri dalla bocca eruttiva. Tali prodotti sono stati ritrovati nella Pianura Russa. La quantificazione dei volumi emessi è affetta da incertezze significative, ma si può ragionevolmente accettare che l’ordine di grandezza sia 100 km3; pertanto il volume di magma coinvolto nei processi che hanno prodotto l’eruzione è notevole, tenuto conto che il volume dei prodotti emessi nel corso dell’eruzione è solo una parte (circa il 10%) del volume di magma disponibile”.
“Dopo la grande eruzione ignimbritica, detta anche del “Tufo Grigio Campano”, la ripresa di attività avviene all’interno della caldera. L’eruzione di maggiore energia in questa fase è quella del “Tufo Giallo Napoletano” – ha concluso Luongo - verificatasi 15.000 anni fa con un meccanismo del tutto simile a quello dell’ignimbrite campana, ma con energia e volumi dei prodotti emessi di un ordine di grandezza inferiore. Il Tufo Giallo Napoletano ricoprirà con flussi e prodotti di caduta dalla colonna eruttiva tutta l’area napoletana, modificando la morfologia del territorio. Il centro eruttivo è localizzato nella conca flegrea, dove, in seguito a tale eruzione, si produrrà un secondo collasso calderico di minore dimensione di quello prodotto dall’Ignimbrite Campana. L’ultima eruzione avviene nel 1538 e forma il Monte Nuovo che modificherà sensibilmente la morfologia del territorio interessato dai laghi di Lucrino e di Averno. L’eruzione di Monte Nuovo sarà anticipata da un lungo periodo di bradisismo ascendente (circa 6 m alle colonne del Serapeo di Pozzuoli) e da una crisi sismica nei due anni che precedono l’eruzione.
Il vulcanismo attivo non è solo un elemento di rischio, ma anche una risorsa: paesaggistica, termale, geotermica, culturale. E’ compito dei decisori politici sviluppare le azioni per la mitigazione del rischio e per la valorizzazione delle risorse ambientali e culturali . Il vulcanismo flegreo, unitamente a quello del Vesuvio e delle isole di Procida e di Ischia, è il prodotto di complessi processi tettonici che interessano la Penisola Italiana e il Bacino Tirrenico, compressi dal moto delle zolle Africana ed Europea. Nel corso dell’evoluzione di questi fenomeni la Penisola Italiana è migrata verso est, la crosta si è andata assottigliando, accompagnata da una vistosa subsidenza e da fatturazioni, attraverso le quali il magma è risalito in superficie a formare i numerosi centri eruttivi sommersi nel Mar Tirreno e lungo la costa. In particolare il vulcanismo napoletano è associato allo sprofondamento tettonico della Piana Campana, iniziato nel Quaternario circa 2 milioni di anni fa, e alla migrazione di masse magmatiche verso la superficie”. Fonte: Ufficio stampa La Settimana del Pianeta Terra