VITERBO (UNONOTIZIE.IT)
Le vie della libertà dal fascismo? Sono passate anche attraverso il laboratorio pisano. “Le vie della libertà. Maestri e discepoli nel laboratorio pisano tra il 1938 e il
Erano presenti l’assessore alla Cultura Renzo Trappolini, Tommaso Dell’Era e Antonella Del Prete dell’Università della Tuscia, e una delle curatrici del volume, Barbara Henry.
“Ritengo questa iniziativa – ha detto Trappolini – molto buona, in quanto ci consente di aprire una riflessione sull’università. Ci sono infatti luoghi come questi in cui si produce il futuro, e il convegno svoltosi a Pisa ripercorre il cammino culturale e politico di giovani italiani, sotto il periodo fascista, che li hanno portati ad arrivare all’antifascismo. Si tratta di un importante squarcio di vita di questo paese: laddove avrebbe dovuto rivestire un ruolo importante la riforma Gentile, si sono formate persone come Calogero, Capitini, Moranti e Natta”.
Un incontro di grandi individualità, un luogo che ha visto l’aggregazione di alcuni tra i migliori cervelli in Italia sotto il periodo del fascismo. E da questo incontro è nato il “laboratorio pisano”: le istituzioni accademiche in questi anni hanno attirato molti esponenti illustri di una generazione che si avviava agli studi, segnata dall’importanza dei canali di collegamento tra studenti della Normale, dell’Università e dei collegi e con alcuni docenti. Questo creò le condizioni per un graduale distacco dal regime.
Il libro ha inizio con un’ampia panoramica sulle questioni di politica universitaria in quegli anni. Per capire, vale sottolineare alcuni passaggi del rettore Carlini. 1927: “Si conchiude l’università col considerarsi tempio della scienza internazionale, e dimentica che essa è italiana, creata per fabbricare armi e armati alla nazione in guerra. Perché la guerra c’è sempre ed è guerra di spiriti prima che di baionette. La nomina di rettori e presidi fascisti dice che questo stato di cose è potenzialmente finito”. 1931: “L’ateneo è pronto a ogni momento a tramutarsi in concentramento di armati se l’ora scatti sul quadrante della storia al cenno del Duce”. 1932: “L’università è l’istituto che più di tutti ha funzione politica: di quella politica che il fascismo ha strappato alla meschinità dei partiti e fazioni di politicanti e ha restituito al significato classico”. Contestualmente, gli strumenti di questa educazione totalitaria venivano predisposti con al chiusura dei lavori alla Normale, l’inizio di quelli per la scuola di ingegneria, la definizione del quadro per la fondazione del Collegio medico.
Il quadro si delinea con l’inizio delle persecuzioni razziali. Allora il 7% del corpo docente universitario italiano era ebreo. Specialmente giuristi, specialmente a Pisa: David Supino fu rettore dal 1898 al 1920. Nel 1938, il rettore D’Achiardi si rivolse a Gentile esprimendo una preoccupazione economica: “La partenza di studenti ebrei equivale a una perdita di 150.000 lire l’anno”. D’Achiardi cercò di sfruttare i tempi della burocrazia per alleggerire l’impatto delle leggi razziali. Un altro segnale fu che nessun professore firmò il Manifesto degli scienziati razzisti.
Il libro prosegue con la presentazione dei profili di maestri e allievi cui fa riferimento il titolo. Il primo è il filosofo Guido Calogero, autore di “Scuola dell’uomo”, che si è autodefinito un “pigro antifascista da sempre, svegliatosi nel 1935 quando vide che Mussolini spediva il fascismo sul piano internazionale, assaliva l’Etiopia, preparava la seconda guerra mondiale, si era già accordato con Hitler”. Nel ’42 fu arrestato e condannato al confino insieme ai maggiori esponenti liberalsocialisti fiorentini. Arrivò a Pisa da giovane e brillante accademico, a 30 anni già con stretti rapporti con studiosi di fama internazionale. Importante il legame con Aldo Capitini, grazie al quale scoprì la “comune moralità”: proprio Capitini fece dell’antifascismo un problema morale prima che politico, mentre Calogero era stato prima di allora sempre dedito alla scienza. Nel ’38 capì che in Italia esiste una crisi di civiltà, cui rispose con la “Scuola dell’uomo”, un corso di pedagogia, da cui esce una forte esortazione all’impegno.
Capitini tra il ’34 e il ’44 diventò tra i principali protagonisti dell’antifascismo perugino e nazionale. Giunto alla Normale, trovò un ambiente non apertamente schierato, né da una parte, né dall’altra. Capitini prende da Gandhi l’idea di un metodo nonviolento impostato sulla non collaborazione per dire no al fascismo, in aperto contrasto con
Altra figura importante, il normalista Alessandro Natta. Così descrisse l’esperienza pisana nel suo ultimo intervento da parlamentare nel ’48: “Negli anni da allievo e perfezionando, fra il ’36 e il ’41, abbiamo avuto tanti insegnanti che ci sono stati da stimolo, o comunque d’aiuto nella nostra maturazione politica, talvolta senza essere antifascisti e senza volerci dare lezioni. Con serietà, rigore, stile di vita e onestà scientifica dell’insegnamento, erano esempi, antitesi vere e proprie contro tutto ciò che il fascismo mostrava di essere: teatralità, enfasi, retorica, mistificazioni ridicola e feroce, in una tragica corsa verso l’abisso della guerra”. Questo è anche un riconoscimento alla capacità formativa della Normale.
Il convegno del 2007, i cui atti sono al centro del libro, è stato caratterizzato da quattordici relazioni suddivise in tre sessioni e una quarta dedicata all’ascolto di testimoni d’eccezione: ex studenti come Aldo Corasaniti, ex presidente della Corte costituzionale, Giuliano Lenci, medico e amministratore a Padova, Raimondo Ricci, vicepresidente dell’Anpi, e Emilio Rosini, presidente onorario del Consiglio di Stato, l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
“Pur nei ristretti limiti di autonomia concessi alla Normale - scrisse Ciampi in un messaggio inviato per un’iniziativa analoga a quella di ieri - furono possibili interazioni tra culture diverse, altrove impensabili, e la sperimentazione di spazi di libertà”.
A illustrare e leggere tra le righe del volume, i due esponenti dell’ateneo viterbese, Dell’Era e Del Prete. “Quel periodo - ha detto Barbara Henry – fu molto più complesso e travagliato di come è stato interpretato da Ruggero Zangrandi, grande assente di questo volume. Anzi, il libro rompe con la sua interpretazione e non è un caso che lo stesso si concluda con le testimonianze di chi ha vissuto quelle esperienze, che non possono non essere prese nella giusta considerazione”.
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