VITERBO (UNONOTIZIE.IT)
“I paracadute erano di seta. Noi ci abbiamo fatto abiti e trovato un lavoro più umano. Altrimenti c’era il caldo torrido dei forni della ceramica. Inverno e estate in mutande. Cassino e Viterbo sono state le più bombardate. Qui c’era l’aeroporto…mi fa sorridere pensare che vogliono farne uno. Cinquanta anni dopo. Quando, oramai, è tutto finito.”
Mi sento strana: lavoro in un luogo che racconta storie. C’è il sangue. La vita di chi ha sgobbato sul serio, mentre io, vendo solo libri. E’ una responsabilità essere all’altezza.
“I forni… quelli… avete alzato il pavimento. Non di molto, ma almeno 30 cm. La ceramica seguiva una cottura lentissima. I pezzi venivano spostati. Diversi gradi di cottura. Le fascine venivano bruciate a ciclo continuo. Notte, giorno, notte, giorno, abbiamo iniziato a perdere “competitività” con il gasolio alla fine degli anni cinquanta. C’era l’odore del fuoco, prendeva alla gola, ma è una cosa che rimpiango. Tutta Viterbo puzzava di legna bruciata. Di fatica. Di lavoro vero e onesto. Oggi? Centri commerciali.”
La libreria Malatesta, la mia libreria è “insediata” nello stesso luogo dove c’era il polo industriale di Viterbo. Poi la città, dopo la guerra, si è espansa attorno ad un nulla. Sentire queste testimonianze mi scuote. In un certo senso mi fanno paura. Ricordano un’altra me. Mio nonno che tirava una rete verso un mare mai amico, ma sempre fratello. Ci siamo: torna la nostalgia. Acqua sporca. Chi siamo? Perché strilliamo la notte? Perché mai dobbiamo lavarci sei volte al giorno? Gli operai della Ceramiche Tedeschi puzzavano: di sudore e di legna. Di lavoro. Noi puzziamo dei nostri abiti sintetici, dei nostri saponi ecologici. Io amo i frigoriferi pieni. La mia sindrome del “post”, le mie patologie, mi fanno considerare una perplessa esponente di questa generazione. Formichine affamate e tristi. Piccolo – borghesi pervasi da vigliacche ulcere senza nome, senza l’odore della legna e del sangue.
“Mia zia è morta. Ha lavorato qua fino all’inizio degli anni sessanta. Poi ha sposato un uomo benestante e si è vestita da signora. Da ricca faceva l’uncinetto."
I fantasmi, tutti gli alieni che abbiamo in corpo, escono fuori. Vomitano il loro passato e scappano via.
“Mio Padre è morto ed io ho preso il suo posto alle ceramiche. Avevo 15 anni e dovevo mantenere tutta la famiglia.”
Insisto per offrirgli un caffé. Niente. Deve, assolutamente, pagarlo lui. L’orgoglio proletario e, amici miei, molto di più, perché io riesca a spiegarvelo. A volte mi sembra che le pareti della libreria parlino. Mi sento a casa, eppure mi sento estranea a questa vita che fino ai primi anni sessanta era qui. E’ stato giusto speculare sulle macerie di una città che non c’è più? O, forse, era meglio lasciare che tutto andasse in malora? Divorato dal silenzio dell’oblio e dalla lucidità di ogni morte.
“Lì mangiavamo. I vicini si lamentavano perché eravamo sporchi e numorosi. Mio padre è morto di quella sporcizia: era nei suoi polmoni. Era la stessa cosa di lui.”
Luca Musella
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