[…] All'improvviso appare ai nostri occhi uno dei più bei paesaggi che io abbia mai visto, nella verginità stessa della campagna verde e collinosa. E' tutto grano, verde e tenero, esteso a perdita d'occhio, verso il basso e verso l'alto, luccicante di verde novello, senza case. […] Una campagna così pura, ondulata, intatta nel verde del grano in un mattino d'aprile […]

 

Questo è ciò che vide lo scrittore inglese David Herbert Lawrence, nell'ormai lontano 1927, dal punto più alto della città di Tarquinia, affacciatosi dal parapetto del belvedere.


Uno spettacolo che ancora oggi è fortunatamente e, oseremmo dire, quasi "magicamente" concesso di ammirare a chiunque abbia il piacere di passare una giornata in questa città dalle antiche vestigia e con una lunga storia da raccontare, persasi ormai nella notte dei tempi.


Il visitatore, che a passi lenti e silenziosi si aggira per le sale del museo archeologico di Tarquinia,  l'etrusca Tarchna, potrà forse riuscire ancora a sentire le voci confuse di quelle antiche genti che popolavano una volta questi territori e che ci invitano a leggere, nelle testimonianze giunte fino a noi, la loro vita di tutti i giorni.


Ed ecco materializzarsi davanti ai suoi occhi l'immagine di un popolo vitale, desideroso di immergersi e di perdersi nelle bellezze della natura, di socializzare, di divertirsi, di scatenarsi nelle danze più sfrenate, di banchettare, di misurarsi nelle più diverse competizioni agonistiche, di ostentare opulenza e ricchezza.


Uscendo dal museo, avviandosi su per la stradina ripida verso la parte più alta del paese, e raggiungendo anch'egli il belvedere allo stesso modo di Herbert Lawrence, riuscirebbe forse ancora a scorgere in lontananza la sagoma di un piccolo carro, al seguito del quale stanno una serie di individui a piedi, impegnati a guidare coppie di buoi e di arieti e dietro ancora un altro carro, stavolta un po' più grande del precedente, carico di anfore, con ogni probabilità piene di vino di ottima qualità, e di grandi sacchi, forse contenenti frumento, e, ancora, cesti di frutta fresca …

 

Le attenzioni per le sorti economiche della famiglia portavano di frequente Larth Velca fuori città per visitare le proprie terre. Si accingeva a far ritorno a casa, accompagnato questa volta dai suoi amati figli, il giovane Mamarce e la bella Velelia.


Siamo nell'anno 540 a.C., gli Etruschi avevano da poco combattuto e vinto, alleandosi con i Cartaginesi, una grande battaglia navale contro i Focei (Greci d'Asia Minore, attuale Turchia), nello stretto braccio di mare che separa la Sardegna dalla Corsica, per il controllo dei traffici sul Mediterraneo nord-occidentale[1].


I traffici legati all'esportazione di vino, olio e frumento dalle città dell'Etruria meridionale costiera, dopo un momentaneo periodo di recessione, avevano conosciuto una nuova ripresa e gli affari per molti ricchi proprietari terrieri Tarquiniesi, tra i quali il nostro Larth Velca, andavano a gonfie vele.

Egli apparteneva ad una famiglia di ricchi magnati etruschi i cui esponenti godevano da sempre di grande popolarità a Tarquinia, occupando posizioni di grande prestigio sociale. Essa era da tempo immemorabile proprietaria di vaste e fertili terre[2] e, attraverso matrimoni fra membri della stessa classe, aveva accumulato ingenti ricchezze.


Nell'amministrare le tante fattorie presenti sulle sue terre, Larth Velca si valeva dell'ausilio di attenti collaboratori non essendo certamente facile far fronte da solo a tutti gli imprevisti che di volta in volta potevano presentarsi. Poteva darsi il caso, tuttavia, che un suo diretto intervento si rendesse indispensabile, come era accaduto di recente a causa di una controversia di confine con la famiglia Velthina.


Il podere detto "del colle di Tinia" si trovava a circa cinque ore di viaggio dalla città di Tarchna. Era delimitato a nord e ad ovest dalla strada, ad est da un interminabile filare di alberi di ulivo, estendendosi, infine, a perdita d'occhio verso sud con un fitto bosco, i cimini, ricco di pregevole legname.


Si tramandava ormai da lungo tempo, di padre in figlio, che il dio Tinia avesse voluto un giorno che la collina più alta di questo grande podere, sempre ricoperta da erba di un verde brillante e dalla quale si riusciva a vedere il mare verso ovest, fosse a lui consacrata. Fu così che una notte buia e tempestosa la cresta della collina venne colpita da un grosso fulmine e da quel momento il punto preciso dove esso era caduto venne considerato sacro e vi fu costruita, ricoperta da un piccolo tumulo di terra, la tomba del fulmine. Di qui il nome dato a questo terreno, che fatta eccezione per la collina sacra al dio Tinia, era destinato prevalentemente alla coltivazione del farro, nonché di altri cereali, quali il miglio e l'orzo.

Quest'anno tuttavia era stato previsto il riposo di alcuni appezzamenti del podere per uno o più anni con una sua utilizzazione secondaria per pascolo.


Inaspettatamente, una mattina, Larth Velca venne a conoscenza di una faccenda alquanto spinosa. Il pastore al servizio della famiglia Velthina era stato visto con il suo gregge di pecore oltre il confine che delimitava le rispettive proprietà delle due famiglie, quella dei Velca e dei Velthina.


Fatti come questo si verificavano, purtroppo, di frequente e, anche questa volta, Larth Velca si era visto costretto a richiedere l'intervento di uno dei sommi sacerdoti della città etrusca. Esso presiedette ad un solenne rituale che decretò la sacra inviolabilità della proprietà di Larth Velca, proclamando queste parole: "Il mare fu un tempo diviso dall'aria. Quando poi Tinia[3] rivendicò a sé le terre d'Etruria, stabilì e comandò di misurare i campi e di delimitare le aree coltivabili. Conoscendo l'avidità degli uomini e il desiderio di terra volle che tutto fosse diviso mediante confini. Ma chi li toccherà o li rimuoverà cercando di aumentare i propri possedimenti, diminuendo quelli altrui, sarà dannato. Il diritto di proprietà di Larth Velca sulle sue terre è sancito da leggi inviolabili perché volute da Tinia e il segno concreto di questo diritto, il sacro cippo di confine, non dovrà mai essere rimosso dalla sua posizione attuale"[4].


La vicenda si concluse con l'apposizione di un grosso cippo di confine, sul quale venne inciso un lungo testo che chiarì definitivamente l'estensione e i confini della proprietà dei Velca[5].



[1] Erodoto di Alicarnasso, "un inviato speciale" vissuto duemilacinquecento anni fa ci racconta: «[…] Quando (i Focei) arrivarono a Cirno (nome con il quale gli antichi Greci designavano la Corsica) fecero vita comune, per cinque anni, con quelli che erano giunti prima ed eressero anche dei santuari. Ma poiché essi molestavano e depredavano tutti i popoli vicini, Tirreni (ovvero gli Etruschi) e Cartaginesi, di comune accordo, mossero loro guerra con 60 navi ciascuno. I Focei allora, armate anch'essi le loro navi, che erano 60, affrontarono i nemici nel mare detto di Sardegna […] Venuti a battaglia i Focei persero, ci dice sempre Erodoto, ben 40 navi e le 20 superstiti erano inutilizzabili, avendo i rostri piegati […] Ripresa la via di Alalia, (un'antica città della Corsica, fondata dai Focei pochi anni prima) imbarcarono i figli, le mogli e quanti degli altri beni le navi erano in grado di portare e poi, lasciata Cirno, navigarono verso Reggio.

Quanto agli uomini che prima si trovavano sulle navi affondate, i Cartaginesi e i Tirreni se li divisero. Gli abitanti di Agilla (così era chiamata l'antica città etrusca di Cerveteri) ne ebbero il numero di gran lunga più grande e, condottili fuori città, li lapidarono.

Da quel momento, presso gli Agillei (Etruschi di Cerveteri), chiunque passava per il luogo dove i Focei erano stati lapidati e dove giacevano i loro corpi, diventava rattrappito, storpio, impotente; si trattasse di pecore, di animali da soma o di uomini, era la stessa cosa […]».     


[2] Alla fine del IV sec. a.C., nel momento delle prime invasioni dell'Etruria, un romano scorge dai Monti Cimini l'opulento paesaggio vegetale del territorio compreso tra gli attuali centri di Viterbo e Bolsena: «[…] All'alba del giorno dopo, già occupava la sommità dei Monti Cimini; da lì diede uno sguardo ammirato alle fertili campagne dell'Etruria e mandò giù i soldati a saccheggiarle […]». (Livio, Storia di Roma, 9, 36, 11)


[3] La massima divinità etrusca, identificato con il greco Zeus ed equivalente a Giove latino


[4] La prima parte del discorso fatto pronunciare al sommo sacerdote, ovvero la parte in cui ancora non si fa riferimento in maniera esplicita al protagonista della nostra storia, non è il semplice frutto della fantasia di chi scrive questo articolo per UnoNotizie.it, ma la citazione di alcune frasi tratte da un noto testo etrusco di carattere religioso, che si data all'inizio del I sec. a.C., tramandatoci dalla raccolta latina dei Gromatici veteres: si tratta della cosiddetta "Profezia della ninfa Vegoia". 


[5] L'agricoltura, costituendo la risorsa principale dell'economia, venne regolata da leggi molto severe di carattere sacro, che passarono poi ai Romani. Furono gli Etruschi ad introdurre in Italia la scienza della misurazione dei terreni, facendo ricorso ad uno strumento particolare che si chiamava groma. Una volta stabiliti i confini di un terreno, dei grandi cippi di pietra inscritti, per lo più di forma rettangolare, venivano posti a terra ed impiegati per sancire la sacra inviolabilità della proprietà privata. Qualcuno si sarà forse imbattuto in uno di questi oggetti che popolano le sale o i cortili di ingresso di alcuni musei archeologici nazionali; in rari casi può addirittura esservi inciso per esteso un vero e proprio contratto relativo alle norme di divisione dei terreni fra le ricche famiglie locali e che ne stabilisce l'inizio, l'estensione e i confini.



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