Da tempo, infatti, il governo etiope pratica con fervore il “land grabbing”, cioè, l’accapparramento del terreno a favore di diverse multinazionali occidentali (tra cui, sì, certo, anche aziende italiane, come in questo caso) impegnate in varie opere di sviluppo.
La novità di oggi è che il massacro nel nome della diga GIBE III sul
fiume Omo, prosegue, con impiego di truppe governative ma con metodi da
nazisti, contro gli abitanti dei villaggi che tentano, con le loro forze
impari, di opporsi alla deportazione.
L’ultimo episodio, di fine dicembre, sta emergendo ora grazie a numerosi reportage indipendenti e a un servizio della Cnn. Dettagli da incubo: adulti legati agli alberi e fucilati, bambini buttati nel fiume, cadaveri in pasto alle iene, un villaggio Suri (è il nome di una delle popolazioni autoctone) di 154 anime estinto: solo sette i sopravvissuti, ragazzini che sono riusciti a nascondersi nella foresta.
Il tutto, dicono gli esperti indipendenti di Survival,
un’associazione che si occupa della tutela delle popolazioni tribali in
tutto il mondo, per un’opera che finirebbe per sconvolgere l’ecosistema
della valle e il ritmo delle piene che ne assicura la fertilità.
La diga
infatti, sostengono, altererà i flussi stagionali dell’Omo,
interromperà il ciclo naturale delle esondazioni che riversano acqua e
humus nella valle alimentando le foreste e consentendo agricoltura e
pastorizia, portando al collasso le economie legate al fiume con
conseguente scarsità di cibo o, nei casi peggiori, carestia, per almeno
100mila persone.
La diga avrà impatto anche sul lago Turkana, oltre il confine con il Kenya, che riceve più del 90% delle sue acque dal fiume Omo. Il livello del lago, infatti, potrebbe abbassarsi in maniera rilevante mettendo a rischio il sostentamento di numerosi popoli come i Turkana, di antica discendenza Masai e altri.
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