VITERBO (UnoNotizie.it)
Con il contributo e il patrocinio della Regione Lazio, il Sistema Museale del Lago di Bolsena presenta “PORGETE ORECCHIO, EGREGI MIEI UDITORI...”, viaggio nel mondo della poesia popolare improvvisata in ottava rima.
Racconto teatrale a cura di Antonello Ricci e Alfonso Prota in collaborazione con Società Cooperativa STAF.
Porgete orecchio si basa su testimonianze e cantate improvvisate registrate da Antonello Ricci all'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso in vari paesi dell'Alto Lazio compresi tra il bacino del Lago di Bolsena e la Maremma laziale. Trasformando racconti e rime dei cosiddetti poeti a braccio in narrazione teatrale, Porgete orecchio rievoca storie di brigantaggio, di emigrazione, di guerre mondiali, di lotta per la terra e di riforma agraria, di boom economico a scoppio ritardato, di agonia e morte del millenario ordine socio-economico del latifondo. E' uno spettacolo adatto a tutti.
INGRESSO LIBERO
… PER CHI VOLESSE SAPERNEDI PIU' SU POETI A BRACCIO E POESIA IMPROVVISATA...
Poeti a Braccio come Ruggero Bonifazi da Canino o Fedele Giraldo da Montefiascone discendevano da una schiatta illustre e dimenticata: quella degl'improvvisatori popolari, contadini e pastori dell'Italia Centrale, artisti del canto estemporaneo in ottava rima. Campioni già a quel tempo in via d'estinzione, ma un tempo numerosi e richiesti, per campagne e cittadine, dalla Lucchesìa agli altipiani d'Abruzzo alle maremme tosco-laziali. Fra i loro antenati, per dire, la Divizia contadina dei Bagni di Lucca, alla quale Montaigne accenna nel suo Viaggio in Italia; o il Giandomenico Pèri d'Arcidosso, improvvisatore bifolco alla corte dei Medici agl'inizi del Seicento; o ancora la Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani, nel Pistoiese, il cui talento affascinò due generazioni di romantici, da Niccolò Tommaseo a Renato Fucini.
Ancora fino alla metà del secolo scorso i poeti a braccio rappresentavano la memoria vivente d'una tradizione formidabile. Unica, per durata e resistenza, nella storia della nostra letteratura. Soprattutto i grandi poemi cavallereschi, come l'Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata, che attraverso il Big Bang della stampa avevano portato la poesia a latitudini geografiche e sociali quasi impensabili per il contesto culturale italiano: dalle piazze dei liberi comuni medioevali e dalle corti rinascimentali fin sulle rapazzole di anonimi pastori transumanti, nelle veglie dei poderi, nelle fiere e nelle feste di paese. E proprio nelle opere maggiori del nostro Cinquecento gl'improvvisatori popolari, autodidatti rozzamente alfabetizzati, scoprivano un po' di quel che Don Chisciotte cercava nei suoi libri di Cavalleria: il tenero, anacronistico rimpianto per un'Età dell'Oro, un'Arcadia Felice ormai scomparsa. Tutta poesia, niente classi sociali.
E dire che molti fra gli intervistati da Antonello Ricci avevano 14-15 anni appena quando erano partiti per la prima volta dai loro paesi con qualche compagnia di braccianti verso le bassure di Montalto: quindi avevano fatto in tempo a conoscere, e subire, l'ordine antico del latifondo maremmano, le sue gerarchie inflessibili, la sua fame. Quel mondo ben sintetizzato da Silone in Fontamara: prima il principe Torlonia, dio in terra. Poi i servi del principe. Poi i cani dei servi del principe. Poi nulla. Poi ancora nulla. Poi i cafoni. In Maremma molti di loro avrebbero lavorato tutta la vita.
Nell'ottava rima questi uomini riconoscevano la possibilità di dare un senso alla propria esperienza di vita e di curarne le piaghe. L'ottava: cantata a squarciagola da giovani per osterie e fraschette, consegnata poi spesso - con la maturità - alla meditazione della pagina scritta.
Poeta a braccio è anche Nonno Olindo, uno dei protagonisti di 1932, racconto in versi di Antonello Ricci uscito nelle settimane scorse per i tipi di Davide Ghaleb editore.
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