MONTEFIASCONE (UnoNotizie.it) Al Festival del cinema di Montefiascone è in corso il focus dedicato al regista e sceneggiatore Roberto Faenza, ospite dell’evento per due intere giornate. La retrospettiva prevede la proiezione, secondo le ultime notizie su Roberto Faenza e i suoi film, de “I Vicerè”, seguito da “Prendimi l’anima”, e prosegue con “I giorni dell’abbandono” e “Il caso dell’infedele Klara”. Ieri, prima di incontrare il suo pubblico, il regista si è trattenuto con noi per rispondere ad alcune domande.
Ecco l’intervista. Signor Faenza, come è nata l’idea di realizzare “I Vicerè”?
“I Viceré” è stato una vera e propria impresa. Ho iniziato a lavorarci nel '95 ma era un film che si cercava di fare da circa 50 anni. Rossellini, Visconti e tanti altri registi hanno tentato di mettere in piedi il romanzo di Federico De Roberto, ma il fatto che fin dalla sua pubblicazione nel 1894 e per oltre un secolo venne osteggiato da tutti, non lo ha permesso. Lo scrittore infatti dà un feroce ritratto del nostro Paese, mettendo a nudo immoralità e vizi, e non risparmia dure critiche alla classe politica, alla Chiesa e alla famiglia, i pilastri su cui si fonda l’Italia. Affrontando temi scottanti come il trasformismo, la corruzione, gli scontri fra destra e sinistra, il romanzo di De Roberto è di un’attualità sconvolgente, nonostante sia ambientato nella seconda metà dell’Ottocento.
“Il caso dell’infedele Klara” si può definire un film sulla gelosia?
Il caso dell’infedele Klara è una commedia che racconta la gelosia, ma la gelosia come l'amore sono delle appendici della passione. Quindi lo definirei un mosaico di personaggi che si rapportano tra loro e che si confrontano, a volte in maniera antitetica, in relazione all’amore. Per me, comunque, il film che ha segnato la svolta decisiva riguardo queste tematiche è “Prendimi l’anima”.
Cosa l’ha colpita della storia di Sabina Spielrein, protagonista di “Prendimi l’anima”, tanto da indurla a condurre più di 20 anni di ricerche?
Ho iniziato a scrivere la prima sceneggiatura nel 1978 e ho impiegato 23 anni prima di concludere il film. Ho cominciato ad interessarmi a questo personaggio quando è stato pubblicato il carteggio tra Sabina e Jung. Ciò che volevo mettere in luce era la vita della donna dopo la sua guarigione nell’ospedale psichiatrico di Zurigo, dove lavoravano Jung e Freud, e il suo ritorno in Russia. Così sono partito per Mosca. Le ricerche sono state lunghe e faticose, ho dovuto anche interromperle per sette anni perché diverse indicazioni bibliografiche mi avevano portato fuori strada. Poi ho scoperto che Sabina nel 1923 aveva fondato un asilo e sono riuscito a reperire l’ultimo sopravvissuto dei bambini, oggi un uomo di 84 anni, ospitati in questa struttura infantile. E’ stato proprio lui a permettermi di trovare nuovi documenti su di lei. Sabina è una figura affascinante e forte, oltre ad essersi scontrata con lo Stalinismo e il Nazismo, è il primo caso documentato di innamoramento tra paziente ed analista, ed è diventata lei stessa una psichiatra e una studiosa. Solo oggi sta venendo fuori che Freud e Jung mutuarono alcune loro teorie proprio dalla Spielrein.
Ho letto una sua dichiarazione in cui lei afferma di non avere un’opinione molto positiva della psicanalisi.
Più che della psicanalisi non ho una buona opinione degli psicanalisti. Ho sempre rimproverato loro una disattenzione nei confronti della parte umana della persona. Vittime della loro indagine, dimenticano quello che è l’oggetto della loro indagine, cioè l’uomo, e si concentrano più sugli aspetti tecnici.Pensi a quanti prima di me avrebbero potuto affrontare il caso di Sabina. Mi stupisce che nessun membro della comunità psichiatrica internazionale si sia mai interessato alla sua storia dopo il ricovero a Zurigo.
Lei ha spesso dimostrato di prediligere sceneggiature ispirate ad opere letterarie di autori italiani o stranieri. Da cosa è dettata questa scelta?
Secondo me il cinema italiano è stato rovinato dal Neorealismo. Attori presi dalla strada e dinamiche di improvvisazione hanno alimentato l’idea che chiunque può diventare tutto d’un tratto attore o regista. Il nostro cinema, a causa di questa falsa credenza, si è deprofessionalizzato ed alcune figure importanti sono scomparse, come ad esempio i soggettisti. E allora se i soggetti non ci sono più si trovano in libreria.
Nel 1977 ha realizzato “Forza Italia!”, un film-documentario censurato poco dopo la sua uscita. Ci racconta come è andata?
Devo dire che se tornassi indietro non rifarei più “Forza Italia!”. L’ho fatto in uno stato di incoscienza, non sapendo a cosa andavo incontro e che, in quel momento, l’Italia era un paese dove la libertà di espressione era alquanto limitata. L’idea del film arrivò a metà degli anni ’70. Io, insieme a un gruppo di cineasti e giornalisti, concepimmo l’idea di costruire una satira feroce sui trent’anni di potere della Democrazia Cristiana. Si tratta di un film di montaggio che utilizza spezzoni ripescati negli archivi delle principali televisioni europee. Trovammo del materiale a volte sconcertante, come ad esempio la famosa telefonata ripresa in diretta tra un ministro e il presidente del consiglio, talmente violenta e piena di scurrilità, che ancora adesso molti credono sia falsa. Il film venne censurato poco dopo e ritirato dalle sale cinematografiche il giorno del rapimento di Aldo Moro. Io sono stato allontanato dalla televisione, sono stato in giro per il mondo più di 15 anni e ho potuto ricominciare a lavorare grazie a produzioni straniere. Ma ricordiamo che proprio Aldo Moro scrisse nel suo memoriale, trovato a Milano nel covo delle Brigate Rosse, di vedere “Forza Italia!”per rendersi conto della verità dei fatti.
Elisa Ignazzi
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