La ragazza lo guardava con occhi imploranti. Non gridava più. La figura davanti a lei era impassibile, ferma come una statua. La sua attenzione era concentrata sulla ferita nella testa della vittima designata. L’aveva colpita con forza. Aveva sentito le ossa del cranio scricchiolare. Ma lei era ancora viva. Dalla sua bocca aperta usciva una bava rossa e gorgogliante. La Belva sfiorò con le mani il sangue che usciva dalla ferita e lo annusò come un predatore feroce. Guardò il liquido caldo mentre la giovane sdraiata sull’erba tentò di parlare senza emettere suoni. Solo i suoi occhi chiedevano disperatamente pietà.
La ragazza era nuda, si sentiva febbricitante, aveva la nausea. Nella sua mente sfilavano spaventose allucinazioni. Ma sul volto della Belva non c’era pietà. Sollevò una mano gocciolante di sangue. Sentiva nelle vicinanze il fiume scorrere veloce. Era lì che doveva avvenire. Lì che l’aveva attirata come un ragno nella sua ragnatela di morte. Quello sarebbe stato solo il principio. La sua missione era iniziata e non si sarebbe fermata.
La girò scoprendole la schiena mentre cominciava a piovere e i lampi precedevano il rumore rotolante dei tuoni. Con il coltello praticò un’incisione sulla spina dorsale con precisione chirurgica senza affondare troppo. Tutto il corpo della ragazza perse sensibilità, come un burattino senza fili, ma la sua mente rimase vigile. La Belva sorrise...
... Lì si cercava di salvare la vita delle persone, ma il limite era sempre molto esile. Chi sapeva salvare una vita sapeva anche come toglierla. Poi aveva cambiato strada. La sua “cattiva strada”, avrebbe cantato Fabrizio De André. Ma cos’era la malvagità? Non certo la sua. Viveva in un paese assurdo, dove i delinquenti diventavano eroi, le forze dell’ordine venivano quotidianamente messe sotto accusa, dove le regole non esistevano e i politici, inaffidabili e voraci come cavallette, si vendevano per un pugno di voti, riuscendo a negare anche la realtà. Un mondo alla rovescia dove, come diceva Morandotti, neanche l’ingiustizia era uguale per tutti.
Alzò in aria l’ascia di bronzo come in un atto sacrale. Nessuno doveva offendere le antiche divinità. Lei lo aveva fatto. Lei sarebbe morta. Sacrificata per espiare la colpa.
La ragazza guardava la figura che incombeva su di lei. Non avrebbe dovuto sfidare il demonio. Era stata una sciocca. Cercava disperatamente di aggrapparsi agli ultimi brandelli di vita. La Belva poggiò la fredda lama dell’ascia sul collo indifeso della ragazza, ma non colpì con decisione. Cominciò a tagliare. Lentamente, poi con sempre maggiore frenesia.
La testa si staccò dal collo e rotolò sull’erba che ricopriva il leggero pendio. La Belva, gocciolante di pioggia, si avvicinò, spalancò la bocca della ragazza rimasta pietrificata in un urlo senza suoni e le tagliò un orecchio.