La decisione di far stringere la mano ai giocatori di calcio dopo la partita, “il terzo tempo”, come l’hanno chiamato, sulla scorta dell’esperienza del fair play praticato nelle partite di rugby, era un primo passo, un semplice atto di umiltà, verso la nuova frontiera del fair play in campo. Purtroppo, le buone intenzioni, iniziate nel campo della Fiorentina, non hanno incontrato il consenso di molti giocatori e tecnici, che ancora conservano una mentalità campanilistica, da “tifosi”, più che da professionisti, e, dopo alcuni tentativi in alcuni campi, non sostenuta dai tecnici e dirigenti e dalla stessa Lega, la stretta di mano è stata lentamente abbandonata.
A volte avvengono scene deplorevoli di isterismo, di antisportività o di violenza da parte degli stessi giocatori, i quali, in campo dovrebbero essere portatori di valori e non istigare, con i loro gesti antisportivi, alla violenza i giovani sugli spalti.
Il rugby, quando è approdato a Roma ed in Italia, sul finire degli anni venti, portato da ragazzi di provenienza italo- americana o del mondo anglosassone, figli di ambasciatori che l’avevano praticato oltreoceano, in Francia, in Sud Africa o ad Oxford.
Tra essi Ernesto Nathan e i fratelli Vinci ( detti i quattro moschettieri) che, dopo aver fondato la prima squadra, la Lazio, confluirono tutti nella nuova nascente A.S. Roma.
Il rugby, uno sport che esaltava il gusto del combattimento, nel gusto del ventennio, e chiamava l’atleta a compiere atti coraggiosi, ma, pieno di regole, richiedeva grande lealtà, spirito del fair play e di sacrificio, soprattutto spirito di corpo, fare gruppo.
Un gioco dove non c’è un leader: conta è la squadra.
Sport duro che richiede disciplina e forti stimoli, ma allo stesso tempo è praticabile da tutti, perché ogni tipologia fisica è rappresentata: alti, bassi, magri, grossi..
Sport collettivo, che esalta anche le doti individuali. La collaborazione e la comprensione dell’insieme e crea un legame, che va oltre il mero gesto atletico, dove ai ragazzi viene insegnato il fair play, il rispetto dell’avversario, delle regole e delle decisioni dell’arbitro, già dagli under 7.
Nel rugby il terzo tempo non si limita solo ad una stretta di mano tra i giocatori, ma è vissuto intensamente anche dalle famiglie, dalle mamme, che durante la settimana preparano pietanze da consumarsi alla fine della partita, dai padri che, sacrificano il loro tempo libero e a turno accompagnano la squadra nelle trasferte, dai nonni coinvolti per accudire i nipoti quando i genitori lavorano.
Ogni settimana il campo si trasforma in una grande famiglia ed è sempre una festa a fine partita, dove vinti e vincitori se ne vanno insieme negli spogliatoi e dopo, i più grandi, a bere una birra o a cena insieme.
Una partita di calcio, solo per la sicurezza, quando non ci sono incidenti, viene a costare in una grande città come Roma, alla collettività qualche milione di euro.
Una partita di rugby del Sei Nazioni porta nelle casse della città, a parte il costo del biglietto allo Stadio, ogni volta almeno due milioni di euro, perché gli appassionati e festosi 7/8 mila Scozzesi, Gallesi, Inglesi, Irlandesi o Francesi restano a Roma almeno quattro giorni e spendono in vestiario, maglie, ricordi, ristoranti, alberghi, musei, oggettistica.
Nei tornei di minirugby, spesso, non ci sono né vinti né vincitori, ma si premia chi ha avuto il miglior comportamento in campo.
In una recente indagine in Italia su migliaia di dipendenti di grandi aziende, solo il 37% afferma di capire chiaramente ciò che la sua azienda sta cercando di realizzare e il perché. Solo 1 su 5 si entusiasma degli obiettivi del suo team. Solo il 15% ritiene di lavorare in un clima di totale fiducia.
Nel mondo anglosassone è più diffusa la mentalità di equipe, e questo spirito viene proprio dalla pratica sportiva del gioco del rugby, praticato nelle scuole, nei college, nelle università; uno sport di grande intelligenza, che impegna il corpo e la mente e che Bubi Farinelli, capitano della Nazionale di rugby degli anni ’50, nel pacchetto di mischia con i campioni Paolo Rosi e Piero Gabrielli, definisce “una partita a scacchi giocata in velocità”, nel suo libro “rugby: etica di uno sport”, editore Piero Gabrielli , in quanto il rugby propone innumerevoli strategie e combinazioni che richiedono gioco di squadra, sacrificio, intuizione a cento all’ora, generosità, fiducia in se stessi, solidarietà con i compagni.
Stretta di mano del vincitore verso il vinto, ma anche viceversa, per riconoscere la superiorità dell’avversario. Il vincitore deve riconoscere la bravura del vinto per non sminuire la propria vittoria, e, soprattutto, riconoscere l’autorità dell’arbitro.
Ecco, purtroppo, cosa manca nel DNA del calcio, dove, a volte, diventa impossibile accettare – come scrive Luciano Pinna - che “ chi vince ha sempre ragione” e, soprattutto, nel mondo mediterraneo e latino, a differenza di quello anglosassone, vincere e perdere non sono vissuti come una semplice eventualità.
Occorre introdurre già nella scuola la cultura della vittoria e quella della sconfitta. Come dire “ imparare a vincere, insegnare a perdere!”
In realtà vincere e perdere fanno parte dello stesso processo in modo indissolubile e comunque entrambi sono da subordinare all’idea che il gioco deve essere pulito, senza inganni.
Tecnici, istruttori, insegnanti devono curare l’aspetto atletico, tecnico, tattico, psicologico e motivazionale per mettere i giovani atleti nelle condizioni migliori atte ad ottenere il Primato. Il suo conseguimento deve necessariamente riconoscere sforzi, abilità, motivazioni degli avversari evitando qualsiasi atteggiamento irrisorio o denigratore nei loro confronti. Lealtà e rispetto verso chi, in un’occasione, è stato sconfitto è un buon punto di partenza per apprendere che, non è sempre possibile vincere e che si deve riconoscere agli avversari l’onore delle armi.
Sarebbe necessario da parte di tecnici, allenatori, dirigenti, giornalisti e giocatori, di smorzare i toni, specialmente ora che si vive in un mondo mediatico in tempo reale.
La cultura del vincitore a tutti i costi è stata, purtroppo, costruita anche da un tipo di stampa sportiva aggressiva, che troppo spesso scrive o parla con frasi che inneggiano alla guerra, con la moviola e le radio-telecronache condotte in alcune emittenti private troppo spesso da “non addetti ai lavori” o da persone incompetenti. Tutto ciò infonde nel pubblico, ogni settimana, un senso di rabbia e di rivalsa, una presunzione di sapienza tecnico-sportiva ed alimenta, nelle tifoserie più agitate, quel ragionevole dubbio, di un fallo non visto, di un rigore mancato e, soprattutto, ridicolizza le decisioni arbitrali, costruendo una mentalità che permette a chiunque di essere arbitro, commissario tecnico o allenatore della nazionale.
Nel rugby, come scrive Bubi Farinelli nel suo libro, Rugby: etica di uno sport, non ci sono tifosi, ma solo appassionati, tutti competenti, con cui si scambia qualche breve osservazione ed alla fine della partita si va insieme a bere un bicchiere di birra, criticando l’arbitro, ma nello spirito del rugby: il fair play.
Giorgio de Tommaso
Segretario Generale
Comitato Nazionale Italiano Fair Play
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