ITALIA, LA POVERTA' NATA DALLA RICCHEZZA, un tempo eravamo tutti più poveri dei poveri di oggi. Ultime notizie Roma - Questa storia che gli italiani stiano
diventando poveri, di una povertà insopportabile, mi convince
fino a un certo punto. Nei ’50, a parte una sottile striscia di
alta borghesia che si guardava bene dall’ostentare, eravamo tutti
più poveri della media di coloro che oggi sono considerati
tali.
Certo, avevamo molte meno esigenze. I bambini non
venivano iscritti ai corsi di tennis, di nuoto, di danza. Noi
ragazzini giocavamo a pallone nei terrain vague dove anche ci
scazzottavamo allegramente (era la nostra “educazione
sentimentale”) e tornavamo a casa la sera con le ginocchia nere e
sbucciate (chi mai riesce, oggi, a vedere un bambino, vestito col suo
paltoncino, come un cane di lusso, con le ginocchia sbucciate?). A
nuotare (parlo di Milano) si andava all’Idroscalo oppure, durante
le vacanze scolastiche, accompagnati dalla mamma (il padre rimaneva
in città, perché allora per mantenere la famiglia bastava uno solo)
sulla Riviera di Ponente. Gli adulti non sognavano i
Caraibi, non sapevamo nemmeno che esistessero. Vivevamo in un mondo
circoscritto. La fabbrica o l’ufficio, a Milano, erano quasi sempre
vicino a casa. In altre zone del Paese invece si doveva fare anche 30
chilometri. Allora si inforcava la bicicletta, che a quei tempi
era un mezzo di locomozione (negli anni Trenta avevano la targa, come
le automobili) e non un gadget per tipi snob.
In compenso non
c’era bisogno di fare jogging. Eppoi la povertà aiuta la
povertà. Passava lo strascè (“strascè, strasciaio”) e gli
buttavi dalla finestra qualche vecchio lenzuolo bucato. Passava
l’arrotino e ti affilava i coltelli per poche lire. Veniva il
contadino (la città era ancora compenetrata con la campagna) e ti
portava le uova, i pomodori, la frutta. Essere poveri dove tutti, più
o meno, lo sono non è un dramma e nemmeno un problema. Quando uno ha
da abitare, da vestire, da mangiare (nessuno nei ’50 moriva di
fame, anche se la minaccia paterna, dopo la marachella, “Stasera
vai a letto senza cena”, non era da prendere sottogamba), gli
amici, la ragazza e, più tardi, una moglie e dei figli, cosa gli
manca per essere non dico felice (parola proibita, che non
dovrebbe essere mai pronunciata), ma almeno sereno?
La povertà
nasce con la ricchezza. Quando una fetta consistente della
popolazione la raggiunge. Innanzitutto per la concreta ragione che
tutti i prezzi dei beni essenziali si alzano. Lo si vede
bene nella Russia di oggi dove accanto agli Abramovich ci sono
professori universitari che col loro stipendio ci comprano un mezzo
pollo. Nei ‘50 e nei primi ‘60, in Italia, un pasto completo in
trattoria con una bottiglia di buon Barbera costava 250 lire che,
anche fatta la tara dell’inflazione, non hanno nulla a che vedere
con i 25/30 euro con cui si paga oggi una pizza. Gli affitti erano
abbordabili, oggi bisogna strangolarsi di mutui per andare ad abitare
nell’anonimato dell’hinterland.
Inoltre scatta il
meccanismo dell’emulazione, dell’invidia, su cui del resto si
basa l’intero nostro modello di sviluppo. Raggiunto un obiettivo
bisogna inseguirne immediatamente un altro e poi un altro ancora –
a ciò costretti dall’ineludibile meccanismo produttivo, che ci
sovrasta – e, sempre inappagati, non possiamo mai raggiungere un
momento di equilibrio, di quiete, di serenità. Ludwig von Mises, il
più estremo ma anche coerente teorico dell’industrial-capitalismo,
rovesciando venti secoli di pensiero occidentale e orientale, ha
affermato: “Non è bene accontentarsi di ciò che si ha”. Ha
interpretato lo spirito del tempo coniugato con le esigenze del
sistema. Ma poiché “ciò che non si ha” non ha limiti abbiamo
creato il meccanismo perfetto dell’infelicità.
Massimo Fini
Fonte:
Il Fatto Quotidiano
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